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Giornata della memoria 27 gennaio 2018

Data:

26 Gennaio 2018

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L'A.Di.S.U. non dimentica.

Non dimentica questa tristissima pagina della storia italiana, certo non solo italiana, che a volte pare non abbia insegnato abbastanza, visti i continui eventi, episodi, atti che periodicamente arricchiscono la cronaca nazionale..

Era il 1938 quando in Italia il Consiglio dei ministri del governo fascista approvò  le "Leggi per la difesa della razza" firmate dall'allora re Vittorio Emanuele III.

Il 14 luglio 1938 fu pubblicato il famoso "Manifesto del razzismo italiano" redatto da un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle università italiane, sotto l'egida del ministero della cultura popolare. Il manifesto venne poi  trasformato in decreto il 15 novembre dello stesso anno.

Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali: 

    1. Le razze umane esistono; 
    2. Esistono grandi razze e piccole razze; 
    3. Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose; 
    4. La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana;
    5. E’ una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione;
    6. Esiste ormai una pura "razza italiana"; 
    7. E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;
    8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra; 
    9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
    10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.

Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve.
Con il manifesto e le leggi successive, agli ebrei venne proibito, tra l'altro, di prestare servizio militare, esercitare l'ufficio di tutore, essere proprietari di aziende, essere proprietari di terreni e di fabbricati, avere domestici "ariani". Gli ebrei vennero anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni e dall'insegnamento nelle scuole di qualunque ordine e grado. Infine, i ragazzi ebrei non potevano più essere accolti nelle scuole statali.

Quest’anno, in occasione dell’80° anniversario delle leggi razziali, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha nominato Liliana Segre, ebrea, 87 anni, senatrice a vita "per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale". 
Nel 1944 Segre fu internata nel campo di concentramento di Auschwitz, dove rimase per circa un anno prima di essere liberata.

Vi proponiamo, un estratto da un suo scritto "Matricola 75190 di Auschwitz" tratto da Memoranda. Strumenti per la giornata della memoria, a cura di D. Novara, edizioni la meridiana, Molfetta, 2003

“Avevo 8 anni ed ero una bambina, famiglia italiana da generazioni e generazioni. Facevo parte di quella minoranza di cittadini italiani di religione ebraica – trentacinquemila persone al tempo – che, di colpo, con le leggi razziali fasciste diventarono cittadini di serie B all’inizio, per poi arrivare a diventare di serie Z. 
Otto anni e, all’improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola. Era l’estate del 1938, avrei dovuto iniziare la terza elementare. I miei erano agnostici, laici, in casa non sentivo mai parlare di feste ebraiche, di questioni religiose o di appartenenze particolari, fu, quindi, per me, molto più difficile, anche per questo, rendermi conto che mentre io mi sentivo così uguale alle altre bambine, venivo da quel momento considerata una diversa. 

 

Ed è stato allora, quando il mio papà cercò di spiegarmi che non potevo più andare a scuola per quelle leggi razziali fasciste, che io ho strappato il cordone della mia infanzia.

Mi ricordo tutto di quell’istante.  E poi?

Sono andata in una scuola privata che mi ha accolto. Le ragazzine, con le quali avevo frequentato la prima e la seconda elementare, nel quartiere, quando mi incontravano, mi segnavano col dito. Era una sensazione strana: erano le stesse bambine con cui avevo diviso il banco, con cui avevo trascorso la ricreazione, con cui avevo partecipato a giochi, a festine, a quelle piccole cose delle piccole vite di 8 anni, e improvvisamente quelle mie piccole coetanee mi vedevano come «la Segre». «Lei è la Segre, non può più venire a scuola perché è Ebrea». È stato un momento strano: mi sentivo talmente uguale alle altre ed ero considerata da loro diversa. Nella nuova scuola io non parlavo mai di quello che succedeva a casa mia. Cercavo di non essere diversa, volevo essere uguale alle altre, e quindi non raccontavo che nelle nostre case di borghesi piccoli piccoli, veniva la polizia, e che era un’impressione incredibile per noi: mio padre e mio zio erano stati ufficiali della grande guerra, erano patrioti, mio zio era persino fascista e si era sposato, forse l’anno prima, nel ’37, proprio in camicia nera. Era assurdo, per una famiglia borghese come la nostra, avere improvvisamente la sensazione di essere dichiarati nemici della patria. 

E mi ricordo della Polizia che veniva a controllare documenti, che veniva con aria truce a guardarci con sospetto. E mi ricordo come, attaccata al vestito di mia nonna che andava a aprire, io vedessi questi poliziotti che mi sembravano tanto grandi, entrare con aria battagliera ed essere ridimensionati dalla vecchia signora piemontese, donna dell’Ottocento, che con garbo li faceva accomodare in salotto e offriva loro dei dolcetti. E le camicie nere venivano spiazzate da quest’atteggiamento e non sapevano bene come comportarsi. Ma mi ricordo anche che la nonna chiudeva la porta e mi mandava di là a giocare. E io ero combattuta tra la curiosità pazzesca di stare fuori dalla porta a origliare, sentire cosa avessero da dire quei poliziotti alla mia nonna, e la paura di quello che avrei potuto sentire. 
Andavo di là a giocare, ma diventavo grande. 

La zona d’ombra dell’indifferenza 
Ero orfana di mamma, per cui mio padre era tornato a casa con i suoi genitori. In quegli anni della persecuzione, scrutavo i visi umiliati e dolenti delle persone che mi volevano bene, guardavo i loro occhi, sentivo i loro discorsi – quelli che mi facevano sentire – percepivo una zona d’ombra: quella dell’indifferenza, una costante: la violenza psicologia terribile di chi, pur non compiendo alcun gesto o non esprimendo alcun commento contro di noi, voltava però la faccia dall’altra parte: non erano persecutori, non erano carnefici… semplicemente non c’erano. Voltavano la faccia dall’altra parte. E io mi ricordo di aver sentito in casa frasi simili a questa: «Abbiamo incontrato il tale e non ci ha salutato» oppure mi ricordo le telefonate anonime vigliacche, di cui anch’io qualche volta ero vittima perché andavo a rispondere al telefono, oppure le lettere anonime di cui sentivo parlare vagamente, capivo che arrivavano, traspariva dallo stato d’animo di chi aveva aperto la busta, leggendovi parolacce. 
Era la sensazione di essere soli. Una solitudine non cercata, una solitudine non d’élite, come lo è di solito. No! Era una solitudine forzosa, forzata. Ed era la sensazione di essere guardati, di essere notati, come diversi. Ed era anche l’atteggiamento vigliacco di quelli che seguono il carro dei vincitori. 
È chiaro: è molto più facile stare vicino a chi ha denaro, a che è garantito e può garantire, ma quando si è provato a essere dalla parte dei perdenti, allora si sa quanto sia importante un amico con la A maiuscola: noi, per fortuna, abbiamo avuto amici con la A maiuscola, che ci hanno fatto recuperare pienamente il significato della parola amicizia, che ha la stessa radice della parola amore. Ci sono stati gli amici eroici, quelli che hanno rischiato per noi anche la vita, e molti di loro sono onorati fra i Giusti a Gerusalemme, ma ci sono stati quei tanti che invece hanno fatto parte di quella zona grigia dell’indifferenza. 
Così passarono gli anni della persecuzione in cui si aggiungevano, giorno dopo giorno, alle severe e umilianti leggi fasciste piccoli codicilli, che facevano sì che crescesse continuamente il numero delle proibizioni, dei veti, che ci allontanavano sempre più dalla società. Proibizioni anche assurde – tipo «è proibito avere un cavallo Ebrei» – proibizioni che hanno il sapore dell’incredibile che non avevano alcun senso, ma che servivano ad annientare il nostro essere cittadini. “

 

 

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Ultimo aggiornamento

19/10/2023, 01:51
Inviato da admin il 26 Gennaio 2018